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TRASFORMAZIONI di F. Maletti

Alle origini della fine dl lavoro subordinato "garantito": gli anni '80, le macchine, la tassa sui robot e il lavoro del futuro...
Il LAVORO, a cui faceva e continua a fare riferimento la Costituzione Italiana, dopo settanta anni non è sicuramente rispondente al lavoro di oggi. Ma, nonostante tutto, per “lavoro” si intende ancora una occupazione stabile, garantita per tutta la vita, con progressivi avanzamenti di carriera e, in alternativa, il riconoscimento degli scatti di anzianità. Insomma: un lavoro SICURO in cambio del “comportarsi bene”, e che consente di beneficiare di prestiti bancari per la costruzione della casa, per l’acquisto dell’automobile, per gli studi dei figli. Tutta la nostra comunità ruotava, e tenta di ruotare ancora oggi, intorno alla stabilità del posto di lavoro come regola aurea per giudicare le garanzie, anche morali, delle persone. Così che, purtroppo, anche se ci troviamo in pieno periodo di precarietà del lavoro, queste regole antiquate rappresentano ancora la condizione necessaria per l’ottenimento di un prestito o di un finanziamento: rendendo praticamente impossibile qualunque iniziativa di piccola imprenditorialità o anche solo il superamento, per il singolo, di una crisi economica temporanea. Chi non ha un lavoro stabile e sicuro, se non viene guardato con disprezzo viene tuttavia considerato un perdente, una persona di cui “non ci si può fidare”.
Il DECLINO progressivo dell’articolo uno della nostra Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”…) ha probabilmente un inizio negli anni settanta del secolo scorso: quando, terminata la Ricostruzione ed in pieno boom economico, nelle grandi aziende industriali hanno avuto inizio i processi di automazione con la comparsa dei primi “robot”... Superati nei lavoratori e nelle loro rappresentanze sindacali la curiosità e lo sconcerto derivante da questo tipo di innovazione (e nonostante le promesse dei datori di lavoro che l’introduzione della robotica avrebbe finalmente liberato i lavoratori da lavori umilianti e ripetitivi, alienanti e causa di malattie fisiche e nervose, dando loro una “dignità”) qualcuno ha cominciato a chiedersi se questa novità non avrebbe causato, già nell’immediato futuro, la perdita di posti di lavoro ed un aumento della disoccupazione. Si trattava di un problema nuovo, serio, non previsto, e causa di non poche preoccupazioni. Nelle discussioni che si sono succedute (e sempre molto accese in quel periodo) alla decisione unanime che “nessun lavoratore dovrà essere licenziato, altrimenti è guerra sindacale” qualcuno ha proposto, a titolo di “compensazione”, la istituzione di una “tassa sui robot”.

Nel mondo industriale di allora la proposta è subito stata definita come strampalata e frutto della mente di qualche rivoluzionario di quel periodo: solito, come tutti gli altri suoi colleghi “rivoluzionari” a inventarsi qualunque cosa pur di bloccare il “progresso” e dimostrare che i “padroni” guardano solo ai loro profitti e “se ne fregano dei lavoratori”. Qualcuno ci ha pure riso sopra, definendola una pittoresca variante del “luddismo” con un secolo di ritardo. Il sindacato ha finito coll’archiviare rapidamente quella proposta. Forse per incapacità a capire la radice del problema, forse per paura di passare per oscurantista e retrogrado nei confronti dell’inarrestabile Progresso. Inoltre, molto accortamente, le grandi industrie si sono guardate bene dall’effettuare licenziamenti: trasferendo piuttosto i lavoratori ad altre mansioni più qualificanti e meno faticose sul piano fisico. Oltretutto e per inciso, in una azienda come la Fiat la media del turnover era di circa diecimila persone l’anno (su un totale di circa duecentomila): questo già soltanto per effetto del raggiungimento dei limiti di età per la pensione. Bastava bloccare il turnover, non sostituendo i lavoratori che cessavano il rapporto con nuove assunzioni, per ridurre il numero dei dipendenti fino a diecimila unità l’anno… E così è stato in tutte le grandi Aziende, non solo metalmeccaniche: con buona pace di tutti, sindacato compreso.

Qualche anno più tardi sono arrivati i sistemi informatici. Andando a colpire una categoria di lavoratori che fino ad allora non avevano subito gli effetti della robotica (in quanto quest’ultima riguardava esclusivamente il mondo operaio): la categoria degli Impiegati. Nei confronti della informatizzazione del lavoro i sindacati non si sono mai spesi molto: per i rappresentanti dei lavoratori la categoria degli impiegati era un categoria “venduta al padrone”. E ancora bruciava la marcia dei quarantamila, che aveva umiliato i sindacati e messo in ginocchio le lotte sindacali dei lavoratori. Sotto sotto, per i sindacati si trattava di una vendetta postuma: “si arrangino” era la voce che correva nel mondo operaio.

E così siamo arrivati ai giorni nostri. Quelli della “globalizzazione”. Dove i “padroni” hanno chiuso le fabbriche e fanno i finanzieri, dove i posti di lavoro sono sempre più ridotti, e dove la digitalizzazione incombe sui livelli occupazionali in settori privilegiati fino a poco tempo fa: come quello delle banche.

Qualche settimana fa, quasi a sorpresa uno dei “potenti” (economicamente) della Terra come Bill Gates ha osservato che “stabilire una tassa sui robot e sugli automi non sarebbe sbagliato: in quanto sostituiscono in tutto e per tutto l’uomo per fare produzione”. Qualcuno ha pensato a una provocazione, qualche altro (malignamente) ha insinuato a chissà quali “interessi” personali di Bill Gates. Io, invece, mi sono subito ricordato quella proposta di più di quaranta anni fa fatta cadere nel nulla dopo averla coperta di ridicolo. Ma, Bill Gates, che oggi fa la stessa proposta, mi sembra tutt’altro che una persona sprovveduta: per cui penso valga la pena ragionarci su seriamente. Infatti, a sostegno del welfare ed in particolare delle casse sempre più disastrate dell’Inps, quella parte di lavoro che l’automazione e la rivoluzione digitale stanno soppiantando, è giusto che sia soggetta ad una forma di “contribuzione supplementare”. Tale da consentire una forma di risarcimento a sostegno del sistema e, indirettamente, a chi per queste cause ha perso ogni opportunità di lavoro: piuttosto che venire eventualmente utilizzata dallo Stato per “fare cassa” (come quasi sempre avviene) a sostegno di iniziative che hanno nulla a che vedere.

Ma, agli inizi degli anni ottanta, c’è un terzo fenomeno inquietante a colpire il mondo del lavoro. E al quale non è stata data molta rilevanza: il fenomeno delle cessioni di rami di attività da parte delle aziende.

Mentre fino alla fine degli anni settanta, un po’ grazie ad imprenditori illuminati e precursori come Olivetti, ma anche grazie alle lotte sindacali, le grandi fabbriche si “umanizzavano”, gestendo in prima persona (ovvero con propri dipendenti), attività come quelle di assistenza sanitaria e prevenzione, scuole di formazione, mense aziendali, sorveglianza, pulizie, case per i lavoratori e loro famiglie, colonie estive… finendo per fare dell’Azienda un’isola autonoma e perfettamente autosufficiente circa ogni esigenza del lavoratore, da un certo punto in poi queste attività sono state cedute in “appalto”. Sono nate, di conseguenza, tutta una miriade di piccole attività imprenditoriali che offrivano ed offrono, a costi nettamente inferiori, tutti quei servizi che fino ad allora l’Azienda gestiva in prima persona. Tutto questo ha comportato una drastica riduzione del numero dei dipendenti: riversando queste attività su lavoratori esterni, privi di tutele (o quasi), operanti in aziende spesso costituite da imprenditori improvvisati o addirittura ex dipendenti dell’Azienda per la quale poi forniscono i servizi.

Il processo irreversibile di trasformazione e precarizzazione del lavoro credo che abbia avuto inizio proprio a partire da quel periodo. Ed ha rappresentato una durissima risposta imprenditoriale a quel concetto, caro a una certa sinistra e alla quasi totalità dei sindacati, secondo il quale un lavoratore assunto in una grande azienda DEVE essere “un garantito a vita”: del quale l’azienda deve sempre farsene carico, magari attraverso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, a prescindere dalle trasformazioni produttive e dall’andamento dei mercati.

Oggi, gli effetti della globalizzazione, ma soprattutto l’obbligo al rispetto delle normative europee (direttiva Bolkenstein) circa la libera circolazione delle merci, delle attività e delle persone, ha prodotto una feroce competizione tra tutte le piccole aziende fornitrici di servizi: per cui aziende con sede in Paesi dove il costo del lavoro è contrattualmente inferiore, stanno progressivamente soppiantando, in una gara al ribasso, i vecchi appalti sicuri e garantiti. Generando una lotta tra “poveri” fatta di furbizie e accorgimenti legali tra gruppi di lavoratori dei diversi Paesi della Comunità Europea. Il tutto favorito anche da una mancanza adeguata di controlli. Non rimane che constatare una realtà molto triste: i parlamentari italiani eletti al parlamento europeo, non importa a quale partito appartengono, sembra che siano sempre andati a Bruxelles più che altro in vacanza. E, da sempre, poco si preoccupano delle conseguenze di alcune decisioni che vengono prese e vincolano l’Italia al loro rispetto. Capita così, come in questo caso, che chi ci rimette sono i lavoratori: i quali spesso, dopo essere stati assunti regolarmente (anche con la Jobs Act che, a detta del suo ideatore, “ci invidiano tutti”), dopo tre mesi o anche più, non avendo nel frattempo percepito neanche un centesimo, sono costretti ad abbandonare il lavoro con scarsissime probabilità, oltretutto, di recuperare i crediti maturati. Perché, inevitabilmente, se qualcuno applica nel lavoro delle regole diverse (e più convenienti), la logica conseguenza è quella di una distorsione del sistema della libera concorrenza. E se poi qualcun altro si ribella e provvede a porre rimedio a questa distorsione, attraverso il meccanismo “fai da te” della evasione fiscale ( e data la carenza cronica di controlli in Italia è una vera pacchia), ecco che il DANNO finisce col ricadere sull’intera comunità. Portando, oltretutto, gli onesti a chiudere rapidamente bottega e accentuando la catastrofe sociale.

Se il declino del lavoro porta in modo quasi unanime gli esperti del settore a concludere che il lavoro per tutti, almeno in Italia, ormai non c’è più, e che bisogna da un lato individuare delle forme adeguate di assistenza e dall’altra valutare l’opportunità di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, credo che, per tutti noi, quando si discute di Lavoro, si commetta l’errore di continuare a vedere (come è sempre stato fino ad oggi) il lavoro dipendente come la attività prevalente e che necessita delle maggiori attenzioni e tutele. Sto cominciando a temere che tutto questo rischi di portare a scelte sbagliate. E mi domando se, per caso, il declino del lavoro dipendente sia irreversibile al punto tale che forse conviene dedicare un minimo di attenzione al lavoro autonomo: sul come regolamentarlo semplificando le procedure, sul come favorirlo, sul come “assisterlo”. Magari cominciando a riflettere sul fatto che oggi, sul finire del secondo decennio del duemila, il lavoro dipendente, per quanto riguarda la dignità della persona, sia giusto che vada progressivamente a scomparire quasi del tutto: salvando soltanto quei settori in cui la subordinazione rimane una condizione necessaria per il tipo di attività che viene svolta (come ad esempio nel pubblico impiego e nella assistenza: in particolare quando queste attività vengono regolamentate e svolte in rappresentanza dello Stato). Oltretutto, una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per consentire a tutti di avere un’occupazione (ed un reddito), non può che essere limitata ai rapporti di lavoro subordinato. Ma, anche qui, va considerato che ci sono lavori e professioni ai cui addetti non può essere imposta una riduzione della prestazione lavorativa senza arrecare un danno alle loro “eccellenze” e che finiscono con l’andare a discapito della intera comunità (mi riferisco in particolare a quelle persone dotate di particolare talento nello svolgimento della loro attività).

Però, forse, e senza che venga reso pubblico (per evidenti interessi politici che comprometterebbero la lungimiranza e la suscettibilità di un tal Matteo da Firenze), è già in atto un vasto fenomeno di assunzioni ad orario ridotto (part-time) e verificabile soltanto tramite l’Inps. Anche se in molti casi si tratta di lavori a tempo pieno mascherati, (per ridurre al datore di lavoro i costi e occultare le sue attività in nero), se questo nuovo fenomeno fosse generalizzato i benefici auspicati di un aumento dei livelli occupazionali attraverso la riduzione in forza di legge dell’orario di lavoro diventa una chimera.

Le attività autonome, invece, stanno aumentando in modo vertiginoso. E non sempre possono essere definite “lavoro” in senso stretto: spesso non ci sono precisi tempi di lavoro, spesso si estendono a libere azioni di volontariato, di intervento a salvaguardia del territorio, di conservazione e riparazione di oggetti, di trasformazione e di riciclo, di improvvisazioni temporanee: e se va bene, solo successivamente diventano attività stabili. A volte, difficilmente riconoscibili di primo acchito, ci sono anche intuizioni geniali che possono generare nuovi filoni produttivi.

A tutte queste attività manca però il supporto adeguato, anche economico, di persone competenti. I detentori del potere di finanziamento di queste attività sono spesso dei burocrati ottusi, operanti per conto di terzi, e miranti soltanto al massimo del guadagno nel minor tempo possibile. E che, soprattutto, vogliono GARANZIE. Quelle garanzie che nessuno può dare se non rischiando l’osso del collo. Ci vorrebbe un intervento dello Stato. Ma lo Stato che cosa ha fatto finora? Invece di utilizzare al meglio i pochi miliardi disponibili, non sapendo che fare ha soltanto saputo dare ottanta euro mensili a chi ha già un lavoro come lavoratore dipendente!

Oggi continuiamo a vivere in una condizione di confusione perenne. Dove, purtroppo, i nostri rappresentanti politici non hanno progetti diversi da quello di come salvaguardare ed accrescere il loro livello di potere personale. Il senso dell’essere comunità si è perduto. Si vive tra insulti e falsità personali, manipolando la verità solo per dimostrare l’inaffidabilità dell’avversario politico. In realtà non c’è un progetto, non c’è una proposta seria per uscire dal guado. I politici vivono alla giornata. Cavalcando le emozioni che la notizia del momento ha provocato nell’opinione pubblica. Ma pronti a sostenere il giorno dopo l’esatto opposto se il vento cambia. Manca, tragicamente, una visione d’insieme delle cose. E il mondo del Lavoro ne è un emblematico esempio.

Comunque sia, di fronte a tutte queste trasformazioni, per maggiore chiarezza e comprensione da parte di ognuno di noi, forse sarebbe opportuno modificare l’articolo 1 della nostra Costituzione con questo semplice correttivo: “L’Italia è una Repubblica fondata sulla OPEROSITA’ dei suoi cittadini” (subordinati e autonomi). OPEROSITA’ intesa come variante del lavoro esteso in ogni sua forma: retribuita e non.

Giugno 2017 Franco MALETTI
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