Per tamponare la situazione si vende tutto quello che altri prima hanno faticosamente costruito. Non è solo il triste destino delle famiglie italiane, anche i sindaci fanno…
Folli s/conti
Una costante della storia degli ultimi vent’anni del nostro paese è la corsa alle cosiddette “privatizzazioni”. In nome della bontà e della “convenienza per il cittadino” e del “mercato che abbatte i privilegi”, lo Stato, i comuni e le Regioni hanno cominciato a dismettere – sovente senza gara pubblica o con procedure dove spesso si sapeva prima chi avrebbe poi preso il piatto – servizi pubblici e attività economiche costruite negli anni e sempre con risorse pubbliche. Sovente l’hanno fatto senza criterio e accompagnando lo smantellamento dell’economia pubblica con operazioni di ingegneria finanziaria condotte da politici, locali e nazionali, con i soldi dei cittadini. Qualche esempio luminoso delle perdite che hanno inflitto alle loro comunità ce l’abbiamo anche noi qui vicino (Settimo docet). Così, poco per volta, in nome dell’efficienza e dell’economicità i comuni hanno smantellato gli uffici delegando a privati la gestione di servizi pubblici, qualche volta anche la loro programmazione.
Attività decotte sono finalmente state dismesse, ma insieme con queste anche servizi e imprenditorialità d’eccellenza sono finite nel calderone delle dismissioni. Non c’è bisogno di essere nostalgici del socialismo all’italiana della partecipazioni statali di una volta, ma ci sarà pure una relazione fra la vendita delle attività pubbliche di peso e il declino del nostro paese.
Soprattutto, non c’è più chi provi a rispondere alla domanda che giustifica la democrazia da quando esiste: “Se la politica abdica al suo ruolo, quello di innovare, riformare sul serio, sperimentare nuovi scenari per migliorare speranze e condizioni dei cittadini… a che serve?”. Questa domanda se l’è fatta qualche sera fa un consigliere comunale del PD della città in cui vivo nel corso di una seduta in cui l’unica delibera proposta prevedeva la dismissione ai privati di attività che il comune aveva costruito nel passato recente e che rappresentavano, quando erano ancora gestite con criterio, i suoi fiori all’occhiello (mensa biologica e con dieta mediterranea, teleriscaldamento e servizi tecnologici ai cittadini eccetera).
Ha ascoltato i bla bla del suo sindaco (uno che non ha mai lavorato veramente un giorno in vita sua), le ragioni dell’opposizione, i farfugliamenti del suo giovane e ignorante capogruppo e poi ha detto all’incirca così: “Ma se il nostro comune rinuncia a fare le cose nuove e si occupa solo della burocrazia, a cosa servono sindaco, giunta e consiglio comunale?”.
Eh già : scopo della politica è innovare (non cambiare il nome alle stesse cose mettendogliene uno in inglese), costruire strade nuove, provare. Il senso del governare è questo: senza un progetto non c’è un futuro. Vale per i singoli, figuriamoci per le comunità . Solo che i politici d’oggi, specie quelli del PD, questa musica proprio non la vogliono sentire perché dovrebbero misurarsi con la loro inadeguatezza e la loro ignavia. Senza libertà e coraggio non c’è sperimentazione e innovazione. Loro queste qualità , se anche le avevano, le hanno vendute da tempo ai capibastone della politica in cambio di un lavoro nelle istituzioni che difendono con le unghie e coi denti, proprio come farebbe chiunque di noi col suo.
Infatti il consigliere si è subito spento e ha votato disciplinatamente per vendere le società di innovazione e continuare a mantenere saldamente nelle mani del comune una società che perfino il sindaco chiama ormai “La Mangiatoia”.
Mariano
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