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KING GEORGE: VERA GLORIA?

Si avvicinano le dimissioni di Napolitano e le conseguenti elezioni del suo successore. Bilanci e  fibrillazioni
Neanche Lenin…
Si avvicina la fine della presidenza Napolitano e – prima che fiumi di inchiostro e un diluvio di chiacchiere si abbatta su di noi, colpevoli consumatori di notizie – qualche considerazione va pur fatta. Specialmente perché il suo quasi novenato (si dirà così? eletto la prima volta nel maggio 2006, rieletto nell’aprile 2013) lascia uno strascico di storie aperte e di precedenti che hanno aperto la strada a un nuovo modo di interpretare il ruolo di presidente della Repubblica italiana.
Più di otto anni fa l’elezione di Napolitano al Colle venne salutata come il definitivo superamento delle divisioni e fratture ideologiche del novecento. Un ex comunista diventava la massima autorità di garanzia dello Stato, dunque la fine certificata del fattore k, dell’anticomunismo, delle contrapposizioni ideologiche e così via.  Fino alla caduta di Berlusconi Napolitano ha effettivamente ricoperto un ruolo di garanzia, soprattutto all’estero, facendosi garante a fronte di un mondo preoccupato della stabilità italiana, del rispetto dei patti e della sua tenuta politica.
In questa lunga fase anche i più critici non potevano disconoscere il ruolo importante che il presidente della repubblica stava ricoprendo. Magari fingendo di non cogliere nei frequenti “sforamenti” i rischi dei precedenti che Napolitano andava inanellando, fino a cambiare la natura stessa della carica di Presidente, almeno per come la Costituzione la disegna.
Quando il Times (edizione europea) gli dedicò la copertina  e un titolo significativo “King George”, Napolitano arrivò al massimo della sua fama: aveva gestito in modo quasi indolore un cambio politico dal sapore di trama di palazzo, operando con maestria sulle debolezze e fragilità di Berlusconi e del suo schieramento politico, per metterlo da parte praticamente senza colpo ferire. Poi l’indole “bolscevica” ha preso il sopravvento: Napolitano, anziché tornare al solo, ha continuato a giocare da principe nella politica italiana, diventando il fattore e il disfacitore di governi, ministeri, nomine e incarichi.
Con la sua benedizione sono nate le larghe intese, tre governi senza avallo del voto e innumerevoli altri episodi minori che, però, tutti insieme danno l’idea di come il “lavoro della democrazia” così come l’aveva definito la Costituzione, è stato trasformato in “trama di palazzo”. Quando la Corte Costituzionale boccia la legge elettorale, invece di mandare il paese al voto per eleggere un parlamento “legittimo”, fa anche lui finta di niente calpestando nei fatti la Costituzione in nome dell’emergenza, della crisi, della debolezza dell’Italia sui mercati finanziari. Questo resta uno dei suoi più grandi errori.
Si arriva così alla rielezione: Napolitano è diventato un tappo, un freno ai processi di rinnovamento e cambiamento. Neanche Lenin avrebbe osato immaginare tanto, per di più in una vecchia e corrotta democrazia imperfetta occidentale, dai residui di fascismo mai del tutto smaltiti. La ragione politica diventa ragione di Stato.
Napolitano è così diventato il vero garante del Patto del Nazareno. Non appena ha fatto trapelare delle sue dimissioni a fine anno, i due si sono rimessi in moto per far passare alle Camere in due mesi quello che non sono ancora riusciti a far digerire in quasi un anno… Se Napolitano se ne andrà prima, il patto diventerà carta straccia, aumenteranno le difficoltà nel tenere sotto controllo un paese che da segno evidenti di non poterne più.
Ecco perché, a meno di problemi che riguardano la sua persona – Napolitano non può permettersi di mollare prima che i due abbiano dato corso agli impegni che si sono reciprocamente assunti. Sarebbe un epilogo inglorioso di questi ultimi suoi tre anni di suoi errori e di insuccessi.
Mariano
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