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BENEDETTA IGNORANZA

Arriva anche l’indagine OCSE a certificare l’ignoranza degli Italiani, da 16 a 65 anni. Partita la caccia alle giustificazioni, che ci sia una qualche correlazione fra ignoranza e “stabilità” politica?
Il valore della conoscenza
Survey of adult skill” ' è un’indagine OCSE che ha coinvolto 166 mila persone di 24 fra i paesi più avanzati del Mondo, uniformemente distribuite per fasce d’età dai 16 ai 65 anni: Lo studio ha certificato che gli Italiani sono all’ultimo posto nelle competenze alfabetiche definite come “fondamentali per la crescita individuale, la partecipazione economica e l'inclusione sociale” e al penultimo nelle competenze matematiche, “fondamentali per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta". Sempre l’indagine, stabilito il livello minimo di competenze necessarie per essere parte attiva nella società di oggi, accerta che solo il 30% degli Italiani le possiede. Significa che una percentuale consistente di nostri connazionali (la stragrande maggioranza) non ha le competenze di base per sopravvivere nella società complessa di oggi e per costruirsi una vita accettabile in un mondo così sofisticato (leggi la scheda italiana).
Da una lettura più accurata si evince che le statistiche sono trascinate verso il basso dalla fascia più anziana della popolazione (55-65 anni) e che fra i giovani va un po’ meglio, ma preoccupa la situazione delle competenze dei giovani che non lavorano e non studiano, le più basse in assoluto.
Con questi requisiti difficilmente possono aspirare a rientrare nel novero della popolazione attiva. Qualche altro dato significativo: il divario fra i giovani e i vecchi è considerevole, superiore a quello che si riscontra negli altri paesi, cosa che fa ben sperare per il futuro. Tuttavia i giovani italiani sono ancora meno “carrozzati” dei loro colleghi stranieri. In Italia, poi, il divario fra i maschi e le femmine è fra i più bassi riscontrati; dato che le donne sono largamente fuori dal mondo del lavoro, questo significa che il nostro paese si priva due volte di risorse che potrebbero fare la differenza.
La divulgazione degli esiti dello studio ha raccolto il solito coro di commenti e di considerazioni, sovente luoghi comuni e poco più. C’è chi si è scagliato contro la scuola (dimenticando venti anni di tagli e una politica di reclutamento del personale che definire suicida sarebbe poco), chi contro l’università (dimenticando che con le lauree a punti abbiamo ucciso la voglia di studiare e capire il senso dell’impegno accademico, per non parlare delle baronie, dei concorsi truccati, delle cupole e di tutto ciò che sovente evochiamo, ma non cambiamo), chi ha invocato il rigore, chi ha stigmatizzato le mancanze delle famiglie e molto altro ancora. Quasi nessuno ha messo in luce quanto sia grande il divario fra noi e gli altri nella diffusione delle tecnologie e nell’accesso alle reti, oramai fonte principale di acculturazione, informazione e costruzione di competenze delle giovani generazioni e non solo di quelle. O di come il sistema di istruzione continui a puntare sui contenuti invece che sulla costruzione di metodi per accedere, cercare  ed elaborare le conoscenze in un percorso creativo originale.
Pochi si sono soffermati su quella fascia che tira giù la classifica: i quasi-vecchi (55-65). Sono quasi sempre i privilegiati del mondo d’oggi: hanno la pensione o l’avranno a breve, hanno trascorso la loro età adulta in un’epoca turbolenta, ma piena di progresso e di sviluppo continuo. Hanno visto il loro tenore di vita migliorare per tanti anni e poi fermarsi. Oggi molti di loro usano il benessere guadagnato con tanti anni di fatica per soccorrere figli e nipoti che, meno fortunati e a volte meno carrozzati, hanno bisogno di integrazione del reddito e di assistenza morale e materiale.
Anche per questo sono più egoisti, attaccati a ciò che possiedono, terrorizzati dal cambiamento perché potrebbero perdere tutto. Votano sempre gli stessi due partiti (uno a destra l’altro a sinistra) e se ne lamentano poi con perseverante continuità, parlandone come se fossero stati altri a fare i pasticci che sappiamo. Sovente sono più ignoranti – come adesso certifica anche l’OCSE -non solo per il titolo di studio, ma anche per lo stile con cui hanno condotto l’esistenza. Insomma, una bella massa di manovra per chi agita lo spettro della paura, della stabilità, del “mangiamoci le altre generazioni per garantire la nostra”. In altre condizioni sarebbero una fondamentale risorsa, c’è bisogno di gente d’esperienza che sviluppi le attività cosiddette “interstiziali”, quelle che il welfare non supporta più o che nascono per effetto di nuovi modi di vivere. Solo che ci va gente istruita e curiosa, non i nostri quasi-vecchi, almeno non la gran parte di loro.
Questo è prodotto più velenoso dell’ignoranza, quella benedetta ignoranza che contribuisce a mandare a fondo il paese e a fare sì che nulla cambi mai, proprio mai.

Mariano
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