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I PROFESSORI E L’ARTICOLO 18

Un gruppo di emeriti giuristi del lavoro (Lavoro e Diritto, Bologna, Il Mulino) ha diffuso l’appello che segue. A quanto pare inascoltato dal Professore e dalla Professoressa; stavolta però non sembra che la passeranno tanto liscia. Almeno speriamo.

Per una buona modifica dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori
L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha un significato al tempo stesso reale e simbolico.
Il significato reale consiste nell’estendere ai contratti di lavoro la stessa sanzione prevista per l’illegittimità di qualsiasi atto commesso tra privati.
Se un licenziamento è illegittimo l’art.18 dispone che quell’atto sia rimosso, come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante e come accade in tutte le forme di inadempimento contrattuale, in cui è il creditore adempiente che può scegliere fra esecuzione del contratto e risarcimento dei danni. Nel diritto del lavoro tale rimozione si chiama “reintegrazione”. Questa semplice previsione (annullare il licenziamento illegittimo, reintegrare il lavoratore e risarcirlo del danno subito) esercita una rilevante forza deterrente, e rende praticabili i diritti dei lavoratori nel concreto svolgersi dei rapporti di lavoro, a partire da quelli sindacali.

Chi sa di poter fruire di una tutela contro il licenziamento illegittimo ha infatti molte più possibilità di agire per rendere effettivi i suoi diritti di fondo nello svolgimento del rapporto di lavoro. Tutto ciò oggi non possono fare i lavoratori precari, a termine, somministrati, assunti con pseudocontratti di lavoro autonomo ecc., i quali, in attesa della auspicata stabilizzazione, sono indotti a subire ogni condizionamento del datore di lavoro.

A ciò si aggiunga che l’obbligo di motivare il licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegrazione costituiscono l’unico effettivo baluardo nei confronti dei licenziamenti discriminatori, per cui continuare ad affermare che la reintegrazione resterebbe solo per questi ultimi costituisce una evidente mistificazione.
L’art. 18 ha tuttavia anche un rilevante significato simbolico: nel sentire comune, la reintegrazione si identifica con l’idea che tra il lavoro e l’impresa, tra il mercato e la dignità del lavoro, debba esistere un equilibrio, un bilanciamento, una equa distribuzione del potere.

Non può sfuggire tuttavia che nella applicazione di tale sacrosanto principio alcune cose non funzionino. Non funzionano anzitutto i tempi del processo del lavoro. Se tra primo, secondo e terzo grado i tempi di una controversia in tema di licenziamento si aggirano, mediamente, salvo i distretti giudiziari più virtuosi, tra i sei-sette anni, il giusto principio si traduce in un paradosso. Non solo non ha alcun senso una reintegrazione che avvenga a tanti anni di distanza dal licenziamento, ma in tal modo l’onere economico del datore di lavoro si amplifica a dismisura. E’ quindi necessario e urgente introdurre misure speciali di accelerazione delle controversie giudiziarie in materia di licenziamenti.

L’altra innegabile disfunzione consiste nel campo di applicazione ora previsto per l’art. 18, individuato nelle unità produttive con più di 15 dipendenti. Tale discrimine fu determinato a suo tempo dallo Statuto sia per l’applicazione dell’art.18 che per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e la conseguente fruizione dei diritti sindacali in azienda. Tale soglia, relativa alla mera dimensione occupazionale, va considerata obsoleta, a fronte dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e delle previsioni relative al mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Essa andrebbe sostituita con parametri riferiti alla effettiva dimensione economica dell’impresa, secondo le indicazione già formulate dalla Unione europea.

L’art. 18 va quindi modificato sul piano della sua funzionalità, non del suo principio di fondo. Mutuando la risalente affermazione di un grande dirigente sindacale, Giuseppe Di Vittorio, si potrebbe dunque dire così: “l’art. 18 va cambiato sul piano applicativo, non per le ragioni per cui ce lo chiedono gli avversari, ma per le nostre ragioni”.

Proponiamo quindi di adottare in Italia una disciplina ispirata a quella vigente nella Repubblica Federale Tedesca fin dalla legge sui licenziamenti del 1951, che si applica a tutte le imprese con più di 5 dipendenti. Salva restando la radicale nullità, e quindi l’obbligo di reintegrazione, per i licenziamenti di cui sia provato il carattere discriminatorio, tale disciplina dovrebbe rimettere al giudice la facoltà di chiedere, per i licenziamenti motivati da ragioni economiche e organizzative, un parere alle Rappresentanze sindacali unitarie, elette da tutti i lavoratori, ovvero, in mancanza di queste, alle Rsa, ovvero alle organizzazioni sindacali territoriali. Allo stesso giudice andrebbe poi rimessa la decisione, fatti salvi i licenziamenti discriminatori, di disporre, in tutti gli altri casi, la reintegrazione del lavoratore ovvero stabilire un equo indennizzo entro un minimo e un massimo stabilito dalla legge, in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa, al comportamento delle parti.

Riteniamo in conclusione che l’Italia nel riformare le regole del lavoro debba ispirarsi ai modelli forti del Nord-Europa, come quello tedesco, orientato ad una ripartizione chiara ed efficace di diritti e tutele e non a modelli deregolati dei rapporti di lavoro con l’adozione di provvedimenti di liberalizzazione dei licenziamenti e cancellazione delle garanzie. Si aggiunga che il riferimento al modello tedesco appare fecondo su molti altri piani: l’avvio di forme effettive di partecipazione dei lavoratori all’impresa, la regolazione della rappresentanza sindacale e dell’efficacia dei contratti collettivi e il più complessivo riassetto delle relazioni industriali.
 
Umberto Romagnoli, Gian Guido Balandi, Luigi Mariucci, Maria Vittoria Ballestrero, Oronzo Mazzotta, Donata Gottardi, Stefania Scarponi, Franca Borgogelli, Gisella De Simone
16 marzo 2012
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