di Mariano Turigliatto
Se fosse un film, sarebbe un film nel film. Ma è un libro, e allora è opportuno parlare di un libro nel libro. Di un brutto libro in un bel libro. Di un libro tremendo in un libro bello. Bello, coraggioso e importante. Roberto Saviano, ragazzo napoletano di 27 anni, pubblica nel 2006 “Gomorra - Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra”. Il libro ha un successo travolgente: in Italia supera alla grande il milione di copie vendute, all’estero viene tradotto in 43 paesi e inserito tra i migliori volumi dell’anno da testate prestigiose come New York Times ed Economist. Dal libro viene anche tratto un film che, con la regia di Matteo Garrone, porta a casa il prestigioso premio della Giuria al Festival di Cannes e ora punta dritto all’Oscar come miglior pellicola straniera. Saviano diventa un personaggio popolare e apprezzato. Fa parlare di sé anche quando, pochi giorni fa, annuncia che salirà sul ring perché la boxe è la sua passione e Pietro Aurino di Torre Annunziata è il suo idolo. Un bel libro con una trama travolgente. Un bel libro che finisce qui. Perché adesso comincia il libro nel libro. Il brutto libro, quello tremendo le cui pagine mettono paura. Roberto Saviano vive sotto scorta da due anni: dal 13 ottobre del 2006 è “prigioniero di Gomorra”, sorvegliato giorno e notte dai carabinieri e costretto a cambiare le abitazioni come fossero camicie. Un incubo. Che tre giorni fa assume contorni ancora più spaventosi: il clan dei Casalesi vuole uccidere Saviano e lo vuole fare entro la fine dell’anno, facendolo saltare in aria lungo l’autostrada Roma-Napoli con tutta la sua scorta. Proprio come successe il 23 maggio di sedici anni fa con Giovanni Falcone, uno dei momenti più dolorosi nella poco serena storia della Repubblica italiana. Un proposito svelato da un collaboratore di giustizia e che trova conferma anche negli ambienti investigativi. Vogliono uccidere Saviano. Vogliono fargliela pagare perché ha alzato il velo sulla realtà. Vogliono ammazzarlo perché è diventato un simbolo di virtù e onestà. Vogliono chiudere il libro con il più tragico degli epiloghi possibili.
A leggere tutti e due i libri, quello reale e quello virtuale, c’è da sentirsi molto tristi e indignati. A leggere la sorte che attende Saviano e la sua conseguente reazione (“Lascio l’Italia, voglio riavere una vita”), tristezza e indignazione crescono in modo esponenziale. Andarsene, prendere atto che una minaccia tanto diretta può significare che lo Stato non sarà in grado di prendersi cura di te, realizzare che il proprio diritto alla parola viene seppellito tra i meccanismi di un detonatore: che cosa è peggio? Non poter più stare accanto ai propri cari (“Voglio incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre”), non poter più vivere una vita normale (“Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia”), non poter più difendere lavoro e ideali (“Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione”): che cosa è peggio?
Un paese sano e normale alzerebbe le barricate per difendere Roberto Saviano. Scenderebbe in piazza scandendo il suo nome e mostrando la copertina del suo libro. Ma oggi il nostro non è un paese né sano né normale. Tra la solidarietà generale di questi giorni non è difficile scorgere dichiarazioni di facciata di personaggi che con le verità - soprattutto se scomode - non hanno il migliore dei rapporti, così come fanno capolino gli atteggiamenti chi non ha mai visto troppo di buon occhio gli exploit di “Gomorra” in libreria e al botteghino (“In Italia ti perdonano tutto, ma non il successo”, era solito dire Enzo Ferrari).
Ma come ci si oppone alla ferocia della camorra e alla sua drammatica minaccia? Come scriveva ieri Giuseppe D’Avanzo su Repubblica a proposito di Saviano: “La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti”.
Può essere una piccola cosa all’interno di questo scenario grandiosamente drammatico. Ma penso che portare con sé una copia di “Gomorra” o, ancora più semplice, una foto di Roberto Saviano potrebbe aiutarci a ricordare (a noi, ma anche agli altri) il dramma del ragazzo napoletano (suo, ma anche di noi tutti) e l’orrore che la sua decisione di lasciare l’Italia nasconde. Al lavoro, a scuola, sull’autobus, sul cruscotto dell’auto in coda: una, cento, mille immagini di “Gomorra” sarebbero un segnale forte. Di solidarietà nei confronti di Saviano e di vitalità per le nostre coscienze troppo spesso anestetizzate. E se poi i palazzi della politica decidessero di esporre al proprio esterno una grande foto dello scrittore (proprio come è accaduto al Campidoglio o all’Eliseo con vari ostaggi italiani o francesi) sarebbe un altro segnale ancora più forte. Una reazione composta e compatta al guanto di sfida lanciato da chi vuole seppellire tutto e tutti.