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GRAZIE

Ringraziare per l’attenzione, la prestazione, la considerazione sembra essere diventato un fardello troppo pesante per i duri e le dure che popolano il pianeta…
La contemplazione dell’ombelico
Entrare in relazione con qualcuno richiede alcuni semplici accorgimenti, uno di questi è ringraziare – anche solo con un cenno sonoro o visivo – chi ti fa, da, offre, suggerisce, elargisce qualcosa. Che si tratti di disponibilità verso di te, di trasferimento di beni e servizi, di semplice manifestazione di attenzione.
In quasi tutti gli angoli del mondo, questo segno si sintetizza in “Grazie”, naturalmente declinato in tutte le lingue del pianeta e formulato, a volte, con varianti che ne arricchiscono o modificano il significato. Per limitarci all’Italiano: “Grazie e mille”, “Grazie, a buon rendere (orribile!)”, “Ti ringrazio”, “Davvero tante grazie!”, “Ti sono grato/a” e così via.
Sembra ovvio e semplice, ma così non è: sempre meno gente ringrazia. Non sai se lo fa perché ritiene giusto così, se consapevolmente vuole privarsi del piacere di dare piacere al benefattore, se è per maleducazione o se nessuno gli ha spiegato che si fa così.
Non mi riferisco solo ai giovani virgulti, che crescono nella più totale ignoranza delle regole del vivere civile, assuefatti a non essere calcolati da genitori perennemente occupati a contemplarsi il tatuaggio e perciò ancora più disattenti; anche gli adulti cominciano a manifestare una preoccupante carenza di attenzione al prossimo.  Dal quale si esigono servizi e attenzioni, senza il dovere della reciprocità: abituati ad avere, si perde la cognizione dell’essere. Assuefatti all’individualismo sfrenato, si compiono solo i gesti che servono allo sviluppo abnorme dell’Io.
Certe volte un grazie è quasi una forma di ipocrisia: lo sa chi ringrazia e lo avverte il ringraziato, ma non è un problema. Dire “Grazie” serve anche solo a segnalare che si ha la coscienza di quanto ricevuto, indipendentemente dalla considerazione per chi ha dato e dalla simpatia/affetto che si prova per lui/lei. E’ un modo per dire che ce ne siamo accorti, non necessariamente che apprezziamo.
Ma neanche mettendola così certi ceffi ringraziano, rivelando una malessere più profondo, quello dell’autismo sociale. La crescita degli individui consiste in una progressiva ricollocazione degli stessi nel mondo: le esperienze e l’età ci insegnano che non siamo noi il centro del mondo, che ci sono anche altri che, come noi, vivono, amano, odiano, desiderano, fanno e disfano. Sempre più adulti paiono non aver mai superato la prima infanzia.
Proprio come quei simpatici soggetti (di tute le età, ma in prevalenza avanti con gli anni) che si muovono per il mondo convinti di avere tanti diritti e pochi doveri, naturalmente a scapito delle nuove generazioni. Mai si sognerebbero di ringraziare per il tanto che hanno: se lo sono guadagnato e che gli altri si aggiustino se non sono stati così abili.
Comunque sia, guai ringraziare! Potrebbe essere un segno di mollezza, di fragilità. Di cui la società cattiva potrebbe subito approfittare impedendovi (se siete maschi) di far scivolare il vostro sguardo, puntato sulla contemplazione dell’ombelico, sempre più in basso a contemplare l’unico organo che oggi parrebbe contare davvero qualcosa.
Mi scuso con quelli che non ho ringraziato, sarà successo anche a me…
Mariano
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