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DIVENTARE EUROPEI

Strumentalizzazioni e sparate di propaganda fanno da apripista alla campagna elettorale per le elezioni europee di maggio 2014. Errori si accumulano ad errori e il conto rischia di diventare davvero salato…
Europa: avanti!
Credo che sia davvero una follia (oltre che un anacronismo) non essere europeisti. Con questo confondendo le cause del profondo malessere che pervade i popoli degli stati dell’UE con la scelta dell’appartenenza a questa istituzione politica in divenire. E’ un po’ come quando ce la prendiamo con lo spigolo contro il quale abbiamo appena sbattuto, invece che con noi stessi che non abbiamo fatto attenzione. Proviamo a ragionarci su…
Ieri
L’UE è una risposta che la politica ha inteso fornire a temi, eventi ed esigenze che hanno segnato della storia d’Europa e non soltanto nel secolo scorso. Finché la politica europea ha lavorato con forza per definirne le caratteristiche e i contenuti, l’Unione Europea ha costituito un valore aggiunto alle sovranità nazionali, fornendo quel cappello e quelle garanzie la cui assenza aveva generato due guerre mondiali. Un’Europa forte e coesa costituiva, oltre che un importante strumento per impedire che la Germania tornasse a essere minacciosa per gli equilibri europei (e mondiali), anche un valido baluardo capace di sbarrare la penetrazione del comunismo in occidente.
Fino al crollo dell’URSS la costruzione di un’Unione Europea forte era un obbiettivo funzionale anche per Washington. Anche di là dell’Atlantico faceva comodo un’Europa occidentale forte (quasi tutta di paesi membri anche della NATO), fatta di paesi contrassegnati da un welfare di stampo socialista (anche quando erano governati dalle destre) e con sistemi politici capaci perciò di contrastare l’azione politica dei sindacati e dei partiti di sinistra quando mettevano in discussione l’appartenenza al blocco occidentale.
Non solo per bontà d’animo o capacità di lotta dei sindacati, i paesi dell’Europa occidentale hanno sviluppato nel secondo dopoguerra sistemi politici abbastanza “giusti”: differenze salariali fra dirigenti e operai accettabili, ricchi tassati con aliquote progressive interessanti, sistemi pubblici efficienti per quanto riguarda la scuola, la sanità, la previdenza, l’assistenza sociale, garanzie per i lavoratori eccetera. Ogni casella di questa complessa costruzione post-bellica stava al suo posto perché ogni gruppo, ceto o classe sociale trovava il suo posto e la sua convenienza. In particolare la trovavano quelli che prendevano l’ascensore sociale del boom economico e della società di massa, ma ce l’avevano anche quelli che stavano ai vertici, protetti di una fase economica e politica che permetteva loro di sentirsi al riparo dalle minacce del comunismo, facendo affari e contribuendo allo sviluppo economico dei loro paesi e delle loro imprese.
La morte dell’URSS ha posto fine a tutto questo. Il modello economico e sociale del capitalismo ha vinto e i capitalisti hanno organizzato la rivincita; la politica che aveva un ruolo centrale nel governo del mondo, ha finito per diventare uno strumento al servizio dei soldi. Le disuguaglianze sociali si sono amplificate a dismisura e la speculazione finanziaria è diventata l’attività più remunerativa del mondo, forse persino più del traffico di stupefacenti. Mentre succedeva questo, la globalizzazione ha definitivamente abbattuto le residue politiche economiche dei governi degli stati medio-piccoli, generando la definitiva scomparsa di politiche protezionistiche che potevano, in casi di difficoltà o crisi, sostenere questo o quel settore delle economie nazionali. Così abbiamo tutti avuto accesso al mercato mondiale di beni di consumo a basso costo, mentre le industrie chiudevano o rilocalizzavano la produzione dove costa meno, in concomitanza con il collasso del sistema formativo (l’innovazione parte di lì) e di quello finanziario che operava giustappunto secondo logiche planetarie, spostando risorse e investimenti dove conviene e creando bolle finanziarie su fondamenta talmente aleatorie da rendere del tutto impossibile stabilire una correlazione con l’economia reale.
L’Europa tentò di correre ai ripari ai guasti della finanzia in libertà con la creazione  del “serpente monetario” (1972), che stabiliva un rapporto di cambio fissi (in realtà con oscillazioni calmierate) fra le varie monete della Comunità europea. Già allora era chiaro agli economisti più accorti che la decisione significava l’abbandono progressivo delle politiche espansive finora condotte da larga parte degli stati europei, finalizzate alla piena occupazione e all’espansione economica finanziata anche con la crescita debito pubblico. Accettare una limitazione nella gestione delle finanze nazionali ha riflessi sulle scelte economiche e sociali, ma allora il tema non era così rilevante per gran parte dei governi: le economie erano ancora in espansione, la piena occupazione quasi raggiunta e, comunque, la pace sociale ben garantita da un welfare funzionante e avvolgente.
A questo seguì nel 1979 la sottoscrizione di un patto fra tutti i paesi della CEE per la creazione dello SME, un accordo per il mantenimento di una parità di cambio fra le monete prefissata, con margini di oscillazione predefiniti (<2,5%> per tutti, <6%> per Italia, Spagna, Portogallo e GB, che aderirà allo SME solo nel 1990). Il patto individuava anche una moneta europea virtuale l’ECU (European Currency Unit), che diventava da quel momento il riferimento per le oscillazioni nei cambi delle monete europee. Ogni paese sottoscrittore si impegnava a mantenere il cambio all’interno del range attuando misure economiche interne per ridurre gli squilibri prodotti dall’inflazione degli anni ‘80, che preoccupava oltremodo Francia e Germania. II paesi che, come l’Italia, fino a quel moneto erano ricorsi a svalutazioni periodiche per mantenere una competitività internazionale abbassando i prezzi dei loro prodotti, si trovarono fortemente limitati nelle loro politica monetaria, ma ne ricavarono peraltro una parziale (ed effimera) riparazione nell’abbattimento della barriere doganali. E’ del 1994 la costituzione dell’Istituto Monetario Europeo con sede a Francoforte e antesignano della Banca Centrale Europea, quella oggi retta da Mario Draghi.
L’unione basata sulla sola moneta non funzionerà a lungo, già nel 1992 Italia e GB usciranno da SME e gli altri paesi saranno costretti ad accettare l’allargamento della maglia: il margine di oscillazione ammesso passa dal 2,5 al 15% e la libera circolazione di capitali viene ulteriormente favorita. I paesi in difficoltà possono ricominciare a operare quelle che chiamano “svalutazioni competitive” per incentivare le esportazioni. Invece di accompagnare la globalizzazione dei mercati con misure di politica economica che qualificano la produzione nazionale, ancorandola mediante un efficace sistema di ricerca applicata e di istruzione all’altezza, i governi tornano a tamponare le falle con rimedi temporanei che oggi paghiamo a caro prezzo.
Tutto questo finirà il 31 dicembre 1998 con la creazione dell’Unione Monetaria Europea e, con questa, della moneta unica, l’euro.
Mentre i governi europei e gli istituti finanziari operavano queste e altre scelte, in una storia lunga almeno trent’anni, la CEE prima e la UE poi non compivano alcun progresso sostanziale verso la realizzazione di quella unità europea che avrebbe dato ben altra forma e sostanza al traguardo della moneta unica: ogni stato ha mantenuto la sua difesa, il suo sistema scolastico, il suo corpus di leggi in materia di tutele, di ambiente e di servizi, a volte addirittura in conflitto fra paesi confinanti, retaggio di nazionalismi passati e di cui l’Europa ha sperimentato sulla pelle i danni.
Oggi
L’Europa ha una moneta unica, divenuta una specie di parafulmine di tutti i rancori e i guasti che una crisi economica - per molte sue parti incomprensibile – ha prodotto. Questa moneta non ha trovato una corrispondenza nella politica europea e dei governi nazionali: la sua adozione – in parecchi oramai affermano - non solo non ha contribuito a costruire per davvero l’Unione Europea, ma ha anche permesso che alcuni stati se ne servissero per dettare regole e condizioni agli altri, sfibrandone l’indipendenza e indebolendone l’economia e le istituzioni. Posto che è sempre più semplice attribuire a terzi responsabilità che sono diretta conseguenza di scelte avventate o, peggio, sconsiderate, oggi l’attacco all’euro si nutre di ottime ragioni, semplici da comprendere e convincenti per la facilità di argomentazione. Molte sono fasulle, ma a pochi interessa davvero.
Uscire dall’euro e tornare alle monete nazionali sostengono gli uni – immaginando e lasciando credere che un ritorno alle “svalutazioni competitive” potrebbe rilanciare economie vecchie e prive di contenuti innovativi –, mettendo al centro dell’UE ancora una volta solo la moneta e l’economia. Restare nell’euro, sostengono altri, perché l’Unione Europea è un valore in sé. Scambiano il tema dell’Europa unita con quello della moneta unica, alimentando le spinte antieuropeiste di chi vuole un ritorno alle anacronistiche frontiere nazionali con tanto di dazi, dogane e frontiere.
Domani…
Noi abbiamo bisogno di più Europa, di un’Europa dei cittadini. In questi anni, nonostante i ritardi e le mancanze della politica, le società europee si sono avvicinate l’una all’altra, complici un po’ più di benessere, una maggiore scolarità, facilità di comunicazione, immigrazione, scambi culturali e formativi, internet… Gli Europei hanno metabolizzato l’idea di essere parte di una comunità dai confini variabili (altra grande intuizione dei fondatori!), accogliente e capace di trasmettere sicurezza e coraggio (lo dicono i manifestanti ucraini…), dalle radici culturali ancora giovani, ma già sufficientemente profonde da resistere a sconquassi e turbolenze.
E’ incredibile che ci sia chi eccita il vittimismo di chi soffre per fare leva sui cascami del nazionalismo di cent’anni fa, lo è ancora di più sapendo che in tutta Europa, anche nei paesi “ricchi”, cresce la protesta di chi è sempre più escluso. Anche nella ricchissima Germania il lavoro è precarizzato, regna l’incertezza sulla tenuta del welfare e sulla capacità del sistema dell’istruzione a reggere la sfida con i paesi emergenti. Lo stesso nei paesi del Nord che appaiono a noi ricchi e in pace. In ogni contrada si contano i danni della finanziarizzazione dell’economia, si registra come la vittoria del capitalismo abbia portato 25 anni di progressivo arretramento sul piano dei diritti e della giustizia sociale, in ogni paese movimenti sempre più vasti denunciano questo modo di intendere l’economia e la vita delle persone. E nasce la voglia di sfidare i dogmi che hanno prodotto questa situazione, di costruire una diversa cittadinanza.
Una sfida di questa natura si può giocare solamente su scala europea. Forse proprio la crisi della moneta unica, di un luogo che c’è solo sulla cartina geografica e che non si è finora voluto costruire per davvero, è l’occasione di un rilancio dell’Unione Europea, attraverso un progetto che definisca tappe e modalità perché le strutture nazionali diventino europee e i cittadini, l’ambient, le politiche economiche e quelle sociali comincino a trasformare un “sogno fattosi incubo” in una realtà capace di “stare al mondo”.
Le prossime elezioni dovranno vedere forse politiche “europee” confrontarsi, paese per paese, con i temi di un’Unione che potrebbe anche diventare la casa di tutti e il luogo dove finalmente realizzare forme di governo autenticamente federaliste e cooperative.
Alla prossima puntata…

Mariano
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