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DOPO FUKUSHIMA

Su “Le Monde” di oggi una intervista importante a Laurent Elio, economista dell’OFCE e autore del libro “Social-ecologie” (ed. Flammarion). Ecco come si sta sviluppando la riflessione politica nel paese europeo con la maggiore produzione nucleare. Il senso dei partiti ecologisti.
Nelle nostre democrazie l’ecologia è la più grande delle necessità.
La catastrofe di Fukushima è una “manna politica” per un partito come Europe Ecologie?
La catastrofe di Fukushima cambia probabilmente la dimensione dell’ecologia politica in Francia e non solo, ma trovo che il termine “manna” non sia quello più adatto. Si tratta piuttosto di una presa di coscienza ciò a cui ci invita questa catastrofe. Una presa di coscienza quadrupla. Innanzitutto il fatto che le questioni di ecologia sono questioni di democrazia. Senza inquadramento democratico, la tecnologia è un fantasma pericolosamente senza controllo.
Poi sul fatto che le questioni ecologiche sono problemi di lungo termine. Non si tratta di un mezzo punto di crescita (del PIL) in più o in meno, ma della nostra capacità di vivere, o sopravvivere, quando gli ecosistemi sono degradati. In terzo luogo, il tema che si pone è quello della resistenza della democrazia elle situazioni di crisi. Infine, l’avvenire dell’energia nucleare. Manna? Veramente non credo proprio; tuttavia non possiamo occuparci d’altro.

Come si fa a parlare di fine del nucleare sapendo che le energie rinnovabili come il fotovoltaico è ‘eolico non possono soddisfare la domanda di elettricità, almeno nel medio termine, a che questa decisione contrasta con la scelta ecologica più importante degli ultimi cinquant’anni, il Protocollo di Kyoto?
Nella domanda ce ne sono due. La prima riguarda l’importanza dell’energia nucleare nell’approvvigionamento energetico dei paesi del mondo, e sotto questo punto di vista bisogna sapere che l’eccezionalità nucleare francese nasconde la realtà seguente: nella produzione di energia nel mondo, l’energia nucleare conta meno di quella da fonti rinnovabili. Seconda parte delle domanda: il cambiamento climatico.
Anche in questo caso l’energia nucleare conta relativamente poco. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, rappresenterebbe il 6% della soluzione al problema dell’emissione di gas a effetto serra. La maggior parte delle soluzioni al problema dell’effetto serra è nel risparmio energetico, nell’efficienza energetica, nelle energie rinnovabili.


A parte “bisogna fermare il nucleare”, quali risposte possono dare gli ecologisti?
Precisamente, se si considerano gli scenari proposti dall’associazione Négawatt, si può disegnare uno scenario energetico al 2050 che permette di eliminare il carbonio dall’economia senza per questo nuclearizzare l’energia. Ci sono scenari energetici simili che attribuiscono un ruolo maggiore agli risparmi energetici e alle rinnovabili. Per esempio quelli elaborati dall’università di Stanford.
Gli ecologisti, e tutti quelli che si oppongono al nucleare, hanno a disposizione delle argomentazioni estremamente convincenti da far valere in materia energetica, tecnologica ed economica. Entriamo nel dettaglio di queste tre misure. Risparmio energetico, vuol dire sviluppare nuove tecnologie in campo energetico e ambientale, come ad esempio le reti intelligenti, capaci di evitare gli sprechi regolando i consumi.
Efficienza energetica vuol dire, ad esempio, investimenti nelle tecnologie dei trasporti, ma nell’isolamento termico degli edifici che è la fonte più importante di lavoro verde. Infine le energie rinnovabili sulle quali, specialmente in Francia, resta da fare tutto, o come nel caso del fotovoltaico, a non disfare.


La catastrofe giapponese rinforza l’ecologia politica per il tempo dell’allarme. Come per ogni incidente o catastrofe, tutto il mondo si emoziona, si assumono delle misure spettacolari e non sempre adatte, poi il ricordo di affievolisce, si ricomincia a costruire in zone esondabili, scommettendo sul fatto che l’incidente non arriverà mai…
Sarebbe spiacevole. Credo che si possa parlare di una generazione Fukushima, composta di persone che hanno improvvisamente preso coscienza di quello che la tecnologia senza democrazia rappresenta come rischio maggiore per l’umanità. Lo spettacolo quotidiano dell’impotenza della tecnologia unita alla carenza democratica del Giappone non potrà essere dimenticato così in fretta, perché noi sappiamo che si presenteranno delle catastrofi che chiamo “social-ecologiche” nella misura in cui il loro impatto dipenderà dalle condizioni sociali e politiche, dal livello delle diseguaglianze e della qualità delle democrazia.
Sono rimasto sbalordito nel sentire il vecchio direttore della prefettura di Fukushima attribuire questa catastrofe nucleare a “una imprevidenza umana” e à “un degrado del processo di decisione politica”. Fukushima ci dice una cosa molto chiara: preparatevi.


Che impatto può avere Fukushima sulla nostra coscienza ecologica?
La domanda richiama la mia prima risposta: Fukushima c ricorda che i problemi ecologici non sono dei vincoli che pesano sulla nostra competitività economica, come si è sentito dire ormai troppo sovente negli ultimi quattro o cinque anni. I temi dell’ecologia determinano il nostro benessere, determinano anche la possibilità di ospitalità per l’uomo su questo pianeta.
Fukushima ci ha brutalmente risvegliati dall’idea che l’ecologia è un lusso che noi non possiamo permetterci in temi di crisi sociale, per ricordarci che (quella ecologica) può essere la più grande necessità nelle nostre democrazie.


In cosa l’ecologia è credibile, dal punto vista economico? Ci sono esempi di crescita verde riusciti? Mi sembra che manchi ancora il ritorno.
Sono d’accordo sulla mancanza di ritorno. Ci sono degli studi, i cui risultati sono beninteso discutibili, e lo stesso concetto di crescita verde è a geometria variabile. In un capitolo del mio libro, cerco di definirla secondo tre dimensioni: lo sviluppo delle eco-imprese, l’economia circolare, vale a dire quella che riduce i rifiuti e il consumo di energie, l’economia di funzionalità, vale a dire quella che trasforma i beni in servizi per diminuirne il consumo. Infine, terza dimensione, la creazione di nuovi indicatori di sviluppo umano che permetteranno un nuovo governo delle politiche pubbliche.
Io parlo più volentieri di “economia verde”, mettendo insieme queste tre dimensioni, che di “crescita verde”. Pe rispondere più direttamente alla domanda, c’è un dibattito in corso sulle previsioni di creazione di posti di lavori verdi, ma non vi è dubbio che si può fare a condizione di disporre di strumenti economici efficaci come quelli dei “sovraprezzi” – per esempio la carbon tax-; questa trasformazione ecologica delle nostre strutture economiche sarà, come tutte le precedenti, creatrice di lavoro, e ancora di iù se si accompagna a una rivoluzione tecnologica.


I partiti verdi sono veramente credibili? I loro programmi mi sembrano sempre troppo leggeri.
Uno dei problemi maggiori, in Francia come in Germania, e più generalmente in Europa, dove i partiti verdi sono più sviluppati, è quello che chiamo la politicizzazione dei temi ecologici, vale a dire la tendenza a collegarli alle tematiche sociali, a cominciare dal tema della diseguaglianza.
Non bisogna che l’ecologia si incateni un una posizione moralista che scoraggerà i cittadini, e lo stesso, che li colpevolizzi, finirebbe per irritarli. Bisogna connettere l’ecologia alla questione sociale. E’ quello che chiamo la social-ecologia. Faccio due semplici esempi i Francia: la precarietà energetica, che tocca all’incirca il 13% delle famiglie, che sono dunque vittime delle cattive condizioni delle loro abitazioni, che aggravano così la loro dipendenza dai consumi di energia.
Questo tema deve diventare centrale nel dibattito pubblico francese. Altro esempio: le disuguaglianze ambientali, vale a dire l’accesso disuguale ai piaceri dell’ambiente e l’esposizione diseguale ai rischi di inquinamento.
Bisogna assolutamente sviluppare questi temi. In Francia, il 60% delle persone espose a rischi industriali abitano in zone urbane sensibili. C’è dunque un “loop socio-ambientale”. Le cattive condizioni ambientali infettano le condizioni sociali e bisogna porre rimedio. Non si può più concepire uno stato previdente che non tenga conto degli effetti delle condizioni ambientali sul benessere della popolazione. Bisogna dunque passare da una social-democrazia, un po’ sorpassata, alla social-ecologia.


Lei pensa che l’azione dell’Unione Europea in questo campo reciti un ruolo cruciale? Non è che questa catastrofe mostra piuttosto i dissensi che esistono fra i 27 circa l’atomo e le politiche energetiche?
Buona domanda. L’UE ha evidentemente un ruolo centrale da giocare in materia di politiche ambientali. E’ uno dei suoi ambiti di competenza più importanti che si è sviluppate nel corso degli ultimi vent’anni. A tale unto che l’UE è oggi il leader ecologico mondiale. Lo si vede sulle questioni climatiche. D’altro canto, le divergenze di reazione, per esempio fra la Francia e la Germania, mostrano quanto siamo ancora lontani da una politica energetica europea, che non è mai stata così necessaria e che pertanto non è mai sembrata così irraggiungibile.
Si tratta di integrare al meglio le differenti fonti energetiche a livello europeo per arrivare a costruire una vera rete europea di energie rinnovabili. Questo permetterebbe di mitigare i problemi di intermittenza di queste fonti di energia.
Da questo punto di vista c’è una cesura incomprensibile tra una politica climatica europea sempre più unificata e una politica energetica sempre più frammentata. Il teme centrale dell’UE dei prossimi trent’anni dovrebbe proprio essere questo.


Ho l’impressione che, prima che una decisione circa la restrizione o la fine del nucleare sia presa, bisognerà che si verifichi il peggio, qui in Francia. Pensa che sia possibile uno sblocco della situazione prima che avvenga una catastrofe nazionale?
E’ il problema del post-Fukushima, che capita un anno prima della scadenza delle presidenziali francesi, e che da questo punto di vista è un’opportunità da cogliere. Bisogna aprire un dibattito sulla strategia energetica francese da qui al 2050, che significa che non dobbiamo aspettare dieci anni per prendere la decisione. Le decisioni debbono essere prese l’anno prossimo per i quarant’anni che seguiranno. Devono essere prese alla luce di ciò che è accaduto, vale a dire la possibilità di realizzazione dello scenario peggiore, quello della catastrofe.
Questa possibilità è reale, e noi dobbiamo comparare il costo dell’energia e il costo della catastrofe nucleare. Che valore ha il fatto di pagare il 20% in meno l’elettricità per vent’anni se, per conseguenza, non si potrà più abitare per secoli un territorio contaminato?
Lo ripeto: Fukushima ci proietta nel lungo termine, che è il quadro adeguato per trattare le questioni ecologiche.


Mentre la “battaglia Fukushima” infuriava, in Francia noi abbiamo visto più del 60% di astenuti. Come credere alla speranza di un rigurgito di vitalità democratica nelle nostre società in queste condizioni?
L’astensionismo, oppure del voto agli estremisti, pone il problema dell’usura degli orizzonti politici in Francia e in Europa. Questa indifferenza non può trovare rimedi se non nella reinvenzione di un progetto collettivo. Che è ciò che gli ecologisti intendono portare. A questo proposito noi abbiamo in Francia fra due forme possibili di terza forza politica: una forza politica che guarda all’avvenire e alla reinvenzione della socialdemocrazia,e una forza politica ossessionata dal passato e dal rimasticamento della pagine buie della storia francese.
Ma questo nuovo orizzonte politico non sarà solido se non si insinuerà nelle realtà sociali. Se no si ridurrà a un partito della catastrofe, ansiogeno e insopportabile per i cittadini.


Fukushima non rischia di orientare la politica ecologista unicamente sui problemi nucleari, scartando tutte le altre problematiche ambientali?
Dono d’accordo. Fukushima deve essere l’occasione per ricondurre il problema energetico alla sua globalità e non soltanto in rifermento al nucleare e inoltre deve essere l’occasione per riportare al centro del dibattito tutte le questioni ecologiche: clima, biodiversità, acqua, degrado degli ecosistemi,, vale a dire tutti i problemi a ungo termine creati dal nostro modello di sviluppo. Così come il cambiamento climatico ha la tendenza ad occupare tutto lo spazio politico, occorre ce il nucleare non riassuma in sè tutti i problemi ecologico di oggi e di domani.


Cecile Duflot la sera delle elezioni cantonali ha dichiarato che l’ecologia non è nè di destra nè di sinistra. Nicolas Hulot è chiaramente un liberale. L’ecologia politica può cambiare le regole? Come si può aumentare il tasso di ecologia senza rimettere in causa l’economia neoliberale? Ci si può fidare dei dirigenti politici dell’ecologismo se  i loro discorsi non sono chiari su questo piano?
Nella domanda ci sono numerosi aspetti, due i principali: l’ecologia deve essere politicizzata, ne sono convinto, ma non deve rispettare gli schemi attuali. L’idea che l’ecologia non sia nè di destra nè di sinistra  è una trappola. L’ecologia è di destra e di sinistra. Ha a cuore la vita di tutti i cittadini.
Circa il tema dei rapporti fra ecologia ed economia, e del posto da riservare al neoliberalismo, la tesi che sviluppo nella mia opera e che lo sviluppo delle diseguaglianze, nello stesso tempo all’interno di un paese e fra i paesi, intervenuto negli ultimi due tre decenni è insostenibile. Le disuguaglianze debbono essere ridotte e questo suppone l’uscita da una teoria economica che crede di poter risolvere a circuito chiuso tutte le questioni delle società umane applicando lo stesso modello neoclassico.
E’ l’economia aperta alle altre discipline che permetterà, con le altre scienze sociali, di rispondere alla sfide che ci arrivano dalle scienze applicate. La democrazia deve riprendere il comando.

(tradotto da Mariano, che si scusa per le eventuali imprecisioni e cavolate)
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