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La legge che avvelena lacqua.

 

di Mariano Turigliatto


Porta la data del 6 agosto, la stessa della bomba di Hiroshima. Non ha con sé e per fortuna nulla di atomico, ma i suoi effetti saranno comunque assai sgradevoli. Si tratta della legge 133 firmata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti e in particolare del suo articolo 23 bis, approvato con il beneplacito dell'opposizione in pieno solleone e ad appena due giorni dall'inizio dei Giochi olimpici di Pechino. Senza fare troppi giri di parole, l'articolo 23 bis della legge 133 privatizza i servizi idrici. Costringe i Comuni a mettere sul mercato le proprie reti entro il 2010, espropriandoli di un'entrata certa e di una sorveglianza sul territorio che è anche garanzia di sicurezza.

La norma approvata la scorsa estate in Parlamento non ha eguali in tutta Europa e, di fatto, sublima in negativo un processo iniziato sei anni or sono, quando cioè le vecchie municipalizzate furono costrette a tramutarsi in società per azioni, più snelle e più operative. L'Italia venne così divisa in 90 bacini idrici e ai Comuni toccò consorziarsi dando mano a bollette che includevano anche tutti i costi, non più scaricabili sul resto delle tasse. Doveva essere un passo avanti, garantito dall'ingresso del privato (banche, industrie, multinazionali) e del relativo denaro. Invece è  stato un colossale flop: nessun investimento serio per rifare acquedotti o reti, tanto che nessuno tra i 26 bacini privatizzati compare tra quelli più virtuosi, capaci cioè di reti efficienti e tariffe competitive (quelle di Cap ed Mm, aziende pubbliche milanesi, sono tra le più basse d'Europa).
Ora i 64 bacini che non hanno dato spazio al privato cadono però di fronte all'articolo 23 bis: l'acqua non è più un diritto collettivo, ma un bisogno individuale che ciascuno deve pagarsi. Da un vaso di Pandora tutto tricolore fuoriescono allora squallidi scenari appena visti nei cieli di (Al)Italia: contatori e relativi profitti affidati a banche, industrie, multinazionali e via lucrando, costi di rifacimento delle reti idriche (rimaste in mano pubblica) a spese dei cittadini.

In tutta Italia si stanno organizzando forme di resistenza agli effetti di questa legge scellerata e sono soprattutto i sindaci lombardi ad aver aperto gli occhi ai loro colleghi sui nefasti effetti di una tale decisione. L'acqua è un business mondiale clamoroso, destinato a crescere in via esponenziale per via dell'offerta che si riduce e della domanda che cresce. I 64 ambiti che non hanno ceduto ai privati e che hanno spesso lavorato bene in condizioni tutt'altro che agevoli si trovano ora a confrontarsi con avversari tosti e determinati, animati dalle leve del profitto e protetti da una politica che mette in secondo piano l'utilità del servizio. Tra i già privatizzati figurano oggi almeno quattro colossi: la romana Acea che ha comprato l'acqua toscana, la Hera di Bologna attivissima in tutta la Padania, la A2A che è il frutto della fusione di Aem Milano e Asm Brescia e, ultima ma non per caso, la "nostra" Iride, figlia di genitori torinesi (Smat) e genovesi (Amga). Peraltro, Acea è stata guidata anche da Walter Veltroni. Un anno fa di questi tempi si parlava con insistenza di una fusione (o quanto meno di una strettissima collaborazione) tra la stessa Acea, Hera e Iride. Un super polo dell'acqua che, oltre a garantire profitti mai visti, avrebbe mosso poltrone politiche importanti sull'asse Roma-Bologna (Torino no, siamo troppo sabaudi per questo tipo di cose, vero?).

A Milano ben 144 Comuni hanno addirittura chiesto un referendum per cancellare il provvedimento con cui la Giunta regionale, già nel 2006, ha separato erogazione e gestione del servizio. Ad animarli, tra gli altri, l'assessore Giovanni Cocciro di Cologno Monzese che ha dichiarato di recente: "Può succedere che i contatori passino a una banca e che questa stacchi l'acqua a un condominio che non paga. A quel punto, il sindaco deve garantire il servizio minimo per ragioni sanitarie, ma non ha più la possibilità di riaprire i rubinetti e deve allora intervenire con autobotti, con acqua che costa cioè tremila volte di più. E non parliamo dei problemi di ordine pubblico: se la gente perde la pazienza, chi se ne fa carico?". Sì, perché per assurdo (ma neanche troppo, a questo punto) può succedere che per segnalare un problema o un guasto si debba telefonare anche in Australia, come è successo ai poveri inglesi che si sono visti triplicare le tariffe.
Del resto, le 400 mila firme raccolte in Italia dai vari comitati per l'acqua pubblica e depositate in Parlamento nel luglio 2007 per una proposta di legge di iniziativa popolare sono rimaste lettera morta. Non s'è trovato uno straccio di relatore né di destra né di sinistra che se ne facesse carico. E la Commissione Antitrust lo ha certificato: situazione di oligopolio con quattro attori forti. Pronta ora a papparsi tutto grazie al 23 bis.. Chi ha detto che l'acqua non ha odore e sapore?

 
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